Popular psychology. Dialogo con i lettori

Popular psychology. Dialogo con i lettori

Una rivista (Natural Style, 2004), ci ha chiesto, per la sua rubrica di dialogo con i lettori, di rispondere ad alcune lettere ricevute in redazione. Un marito casalingo, Le critiche sul lavoro, Troppo altruista.

Una rivista (Natural Style, 2004), ci ha chiesto, per la sua rubrica di dialogo con i lettori, di rispondere ad alcune lettere ricevute in redazione.

UN MARITO CASALINGO  

DOMANDA: Mio marito ha perso l’impiego e si dedica alla casa. Mi evita molti lavori, ma non vuole più uscire con gli amici. Posso aiutarlo?

Si trattava quindi di una lettrice preoccupata per suo marito che, trovatosi disoccupato a seguito di un improvviso licenziamento, aveva cominciato a dedicarsi alle faccende domestiche di cui probabilmente mai, prima di allora, si era minimamente interessato. Quindi si sentiva da un lato compiaciuta per l’aiuto ricevuto, ma al tempo stesso anche in forte dubbio sui possibili vissuti più profondi e inespressi del marito, stante il fatto che non voleva più incontrare gli amici.

Più o meno la risposta è stata:

Qualche anno fa alcuni ricercatori hanno elaborato una graduatoria di eventi di vita stressanti: il licenziamento e la conseguente disoccupazione occupano una posizione estremamente elevata.

La condizione di disoccupato ha delle implicazioni emotive profonde che colpiscono il proprio sistema di valori e di credenze, la stima di se stessi, costituendo uno tra i più duri attacchi alla propria identità sociale (non di rado ci si sente falliti, incapaci, inutili). Da ciò spesso ne consegue un senso di estraniamento e apatia che possono condurre anche verso vissuti depressivi profondi.

Suo marito ha subìto un trauma e cerca a suo modo di reagire, ad esempio il fatto che si dedichi alle faccende domestiche gli serve per fare fronte ai vissuti di inutilità e fallimento. E’ altresì possibile che, in virtù della canonica suddivisione dei ruoli, suo marito si dedichi alla casa in ossequio a chi lavora cioè alla moglie: infatti non è codificato né condiviso, nella nostra società, il ruolo del “casalingo” per cui non riesce vivere senza difficoltà quel ruolo; inoltre non è ancora in grado di condividere con gli altri (amici e quant’altro) questa sua nuova condizione densa di vissuti di colpa di vergogna e forse anche di rabbia inespressa.

Lei può essergli di aiuto comprendendo il suo disagio senza drammatizzare né minimizzare quello che sta succedendo; inoltre deve fare molta attenzione ad

evitare le trappole comunicative del “profeta incerto” del tipo “non ti preoccupare vedrai che tra poco troverai un altro lavoro, e se non lo trovi subito vedrai che prima o poi…” .

Se è presente una rete sociale di amici occorre farla partecipe: chieda a loro, chiarendo gli obiettivi e lo scopo da raggiungere, di telefonare ed autoinvitarsi a casa per una cena o per delle uscite di gruppo, per una serata al cinema o a teatro. Anche l’attività fisica aiuta: passeggiate a piedi o in bicicletta, attività sportive varie (possibilmente in coppia o comunque con qualche amico).

Solo successivamente, superata la fase post-traumatica, potrebbe suggerire esplicitamente a suo marito di rivolgersi ad un centro per l’impiego (pubblico o privato) per avviare delle consulenze orientative al fine di elaborare un progetto professionale ed arricchire e diversificare la rappresentazione di sé.

Veniva suggerito qualche libro come possibile approfondimento:

Bortone, C. Damiano, D. Gottardi (2004), Lavoro e precarietà. Il rovescio del lavoro. Editori Riuniti, Roma.

Kolczok Laurence, Tonani Marcello (2004). Cercare lavoro divertendosi! Franco Angeli, Milano.

Polo (2000), Il mestiere di sopravvivere, Editori Riuniti, Roma.

Rifkin (1995), La fine del lavoro, Baldini & Castoldi, Milano.


LE CRITICHE SUL LAVORO

DOMANDA: Non riesco ad accettare le critiche sul lavoro, le osservazioni mi mortificano molto. Posso diventare più razionale?

Quindi si trattava di una lettrice che si lamentava del fatto che le capitava di sentirsi “tremendamente mortificata” a seguito di critiche e osservazioni ricevute al lavoro da colleghi e/o superiori, giudicando il proprio vissuto come inappropriato perché scarsamente razionale.

Si dette questa risposta:

Dalla formulazione della domanda sembra che venga dato per scontato l’assunto della necessità di accettazione delle critiche.

Ricevere giudizi negativi da parte di altri non è piacevole per nessuno, accettare le critiche serenamente è tutt’altro che naturale e ovvio.

Comunemente si vorrebbe distinguere la cosiddetta “critica costruttiva” dalla “critica distruttiva” intendendo con la prima l’espressione di un giudizio negativo con intenzionalità benevola, con la seconda l’espressione di un giudizio negativo con l’intenzione di “ferire”.

Questa distinzione ha il difetto di prendere in considerazione soltanto il punto di vista di chi emette il giudizio critico (ovvero l’intenzionalità dell’emittente), il destinatario del giudizio negativo non opera questa distinzione (anche se può farlo in un successivo momento) ragione per cui si sentirà più o meno profondamente colpito.

Quindi, che si voglia o no, non appena riceviamo un giudizio negativo la nostra reazione immediata sarà naturalmente negativa.

I meccanismi successivamente conseguenti all’immediata reazione negativa, che possono incidere su quella che viene indicata come “tremenda mortificazione” sono legati ad alcuni aspetti niente affatto secondari:

chi emette il giudizio/critica: qual è il ruolo, funzione, prestigio, legittimità, competenza dell’emittente; qual è e che tipo di relazione/rapporto intercorre tra chi emette il giudizio e chi riceve il giudizio negativo;

il contesto: l’osservazione critica avviene in pubblico, ad esempio davanti ai propri colleghi, oppure faccia a faccia in separata sede;

l’oggetto della critica: vengono giudicati azioni e compiti, come l’esecuzione di un lavoro, aspetti questi che chiamano in causa la quantità di energia che abbiamo speso per il raggiungimento del risultato “criticato”, l’importanza soggettiva attribuita al risultato giudicato negativamente, il grado di coinvolgimento di altre persone, ruoli, processi, legati all’azione/compito criticato, ecc. oppure l’oggetto della critica riguarda opinioni, atteggiamenti, comportamenti, valori, principi e idee, quindi aspetti  più o meno centrali della nostra personalità.

E’ probabile pertanto che la “tremenda mortificazione provata” non sia dovuta alla scarsa razionalità della sua risposta, ma proprio ad uno o più di uno dei punti appena elencati, cioè ad elaborazioni squisitamente razionali che danno avvio alla sua risposta emotiva.

E’ difficile dire che una risposta emotiva è abnorme o esagerata se non si è a conoscenza di quelle informazioni “ambientali” entro la quale è occorsa e che l’hanno determinata.


TROPPO ALTRUISTA?

In questo caso la lettrice chiedeva se non fosse il caso di smettere di essere di sempre di aiuto ai colleghi, stante il fatto che il suo comportamento altruistico veniva velatamente giudicato dai colleghi come espressione di una sua doppiezza oppure allo scopo di ottenere vantaggi secondari.

Le fu risposto così:

Al di là di tutti gli aspetti meritori collegati al comportamento altruistico o prosociale che sarebbe immorale e ingiusto mettere in discussione, soprattutto in un quadro sociale caratterizzato da sfrenato individualismo egoistico, è possibile che il tuo comportamento in ufficio si trasformi in un boomerang per tre motivi:

1) TROPPO BUONA: l’oggettiva eccezionalità del tuo comportamento solleverà qualche sospetto sui colleghi più maliziosi che saranno portati a pensare “è troppo buona, ci deve essere qualcosa sotto, …perché lo fa?” oppure “lo fa per mettersi in mostra con il capo ufficio, lo fa per spenderlo come moneta di scambio in partite più importanti” insomma il tuo atto di aiuto spassionato, diventa un’anomalia che può in definitiva essere interpretato a tuo svantaggio. Allora per non incorrere in questi spiacevoli inconvenienti è bene chiarire esplicitamente che il tuo comportamento non ha altra finalità che quella di aiutare la collega in difficoltà: la semplice domanda: “ti serve aiuto? Io so come aiutarti!” è sufficiente e se il collega acconsente allora puoi partire.

2) INERZIA: il tuo comportamento può favorire l’inerzia dei colleghi che si attenderanno sempre il tuo prezioso soccorso. E se poi non ti attiverai in tutte le situazioni problematiche non sarai giudicata come le altre, ma peggio delle altre perché non ti sarai mobilitata come al solito, come i colleghi si aspettano da te. E’ bene quindi che i colleghi capiscano che quando ti precipiti ad aiutarle lo fai semplicemente perché ti va di farlo, ma allo stesso tempo non dimenticare di insegnare loro come risolvere il problema anche senza di te;

3) DISPENDIO: per sua natura il comportamento altruistico è dispendioso perché assorbe risorse, energie e tempo; fai in modo che anche i colleghi mettano a disposizione le loro energie a vantaggio della collettività (sia esso l’ufficio, il reparto, ecc.) chiedendo il loro impegno verso quella direzione, sottolineando quanto sarebbe più facile lavorare in un ambiente dove tutti si aiutano reciprocamente senza chiedere nulla in cambio. Il tuo comportamento deve diventare contagioso, altrimenti se rimane fine a se stesso, nel lungo periodo, si esaurirà perché le tue energie non sono infinite.

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